domenica, febbraio 11, 2007

E' COME SE IN TRENT'ANNI NON AVESSI VISSUTO,VA'

E' come se sti trent'anni non avessi vissuto và.
Irene al caffè passava da poco tempo e faceva parte di quelle ragazze alle quali non avresti saputo dare un'età:era piccola e magrissima, i capelli molto scuri, due ciocche ai lati si staccavano dal resto a causa del suo continuo arricciarle. Cosa che scoprii solo in seguito, quando la sua frequentazione divenne quasi quotidiana. Lavorava presso un'agenzia di assicurazioni lì vicino e si era trasferita da poco in città.

E' come se sti trent'anni non avessi vissuto,và.
Per pronunciare queste parole impiegò una frazione di secondo,giusto il tempo di aprire la bustina di zucchero e girare il cucchiaino nel caffè. Un gesto che fece in modo così naturale da far credere che si ripetesse molte volte nell'arco delle sue giornate. Come se niente fosse si voltò verso i quadri attaccati alle pareti, osservandoli con un'espressione che non capii lì per lì, immaginai non le piacessero particolarmente. Quando in seguito, per strane coincidenze, la conobbi molto bene capii che quando spalancava gli occhi scuri ed inclinava la testa da una parte, significava per lei ricordare qualcosa cui in passato aveva rinunciato.

Allora però non sapevo che ci saremmo ritrovate a condividere lo stesso appartamento e che quel viso sarebbe stato presto decifrabile in ogni sua impercettibile espressione. Tantomeno immaginavo che il caffè sarebbe stato un momento condiviso con lei tutte la mattine, in cucina, prima di qualsiasi altra cosa, prima che la giornata cominciasse, prima di qualunque altro contatto con le persone: un primo momento disemi-coscienza quando, abbandonato da poco il letto, il sonno, le immagini notturne sono ancora presenti e ti impediscono di concentrarti
su quello che hai attorno. Un momento in cui non focalizzi nulla, in cui non riusciresti a far altro che gesti automatici e distratti, in rigoroso silenzio.

Come fare il caffè. Come ascoltare seduta in cucina il rumore che produce la macchinetta, come una piccola barca che entra in porto a motore spento.
Irene era entrata in silenzio, con la sua piccola imbarcazione spenta, che lasciava intravedere un motore ancora rigurgitante, con addosso suoni e rumori di vecchie traversate in mare mosso e ventoso. Non me ne accorsi, ma ancora prima di trovarci a vivere insieme, quando ci incontravamo solo al caffè, i nostri incontri avevano già acquistato quel carattere tenue, silenzioso, delicato che avrebbero caratterizzato tutte le nostre mattine: nessuna sentiva di dover parlare per forza, potevamo restare lei al tavolo, io al bancone chiuse nello sforzo di afferrare le immagini notturne che fino a poche ore prima avevano riemito la nostra testa e la nostra pancia. Nessuna delle due aveva mai sentito l'esigenza di parlare all'altra a causa di imbarazzo, disagio, senso di colpa. Eravamo entrambe presenti e questo ci dava la tranquillità di non doverlo per forza rendere esplicito.

Allora trovai molto piacevole questa situazione, anche perchè tornata da Milano, affrontavo giorni confusi e pensierosi. Ero tornata al caffè in una sorta di trance, in modo automatico, come ci si può buttare a letto una sera che si è bevuto e si è fatto molto tardi: ci si infila sotto le coperte senza percepire chiaramente la consistenza, nè della stoffa, nè del proprio corpo.
Quelle giornate mi sentivo così. Niente di strano quindi se quando lei se ne uscì con quella frase non avvertii nessuna scossa particolare, se non uno strano formicolio sulla pelle che negli anni avevo imparato suggerirmi: guarda con più attenzione.

Difatto,lo feci. Dopo molti caffè.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Great work.