"Le strade di Fantàsia le puoi trovare solo grazie ai tuoi desideri- disse Graogramàn- devi lasciarti guidare dai tuoi desideri. E' strano-pensò Bastiano- che si possa semplicemente desiderare quello che si vuole. Ma per la verità da dove vengono i desideri? e che cos'è un desiderio?Bastiano aveva mostrato al leone la scritta sul rovescio dell'amuleto: Fa ciò che vuoi. "Questo vuol dire che posso fare tutto quello che mi pare non credi?". Il volto di Graogramàn assunse d'improvviso un'espressione di terribile serietà e i suoi occhi divennero fiammanti: "No!vuol dire che devi fare quel che è la tua vera volontà. E nulla è più difficile. "La mia vera volontà?E che cosa sarebbe?Vuoi dire forse che i desideri che si hanno non sempre sono buoni?".
Michael Ende-La storia infinita
Una mattina mi svegliai serena e calda,sotto le coperte, coprendomi dalla luce che mi faceva male agli occhi, strinsi le ginocchia sulla pancia e sperai di ricordarmi quale fosse il sogno.
Milano, la colazione in cucina, un bicchiere fumante rosso ciliegia sul tavolo di legno chiaro. La radio leggermente gracchiante e la luce che dava l'impressione di cominciare a sbiadire nonostante fosse appena mattina. Il sogno: incontro d'amore tra lenzuola spiegazzate, in una stanza di un bianco accecante.
La sensazione che è riuscita a lasciarmi l'immagine notturna è fisicamente percettibile, tanto che non riescivo a capire se il calore sulla pelle,dalla testa ai piedi fosse dovuto alla coperta o al sogno che oramai diventano quasi una cosa sola. Tutto lentamete, decisi che la giornata sarebbe scivolata via piano, ed anche se può sembrare strano queste sono cose che alle volte si possono decidere: sciogliere le ore come si desidera,dilatarle,allungarle, stringere alcuni istanti,scomporne degli altri. Il tempo come un piccolo panetto di plastilina da modellare.
A Milano, quando capitava una giornata bella tutto diventava molto attraente, era raro ma alle volte, mentre ero, su ebbi la fortuna di vederlo. La periferia dove abitavo aveva intorno un unico paesaggio, senza traumi, senza cambiamenti, senza movimenti.
Le mattine che camminavo veloce verso la stazione, tra la foschia, la lana della sciarpa fin sopra la bocca e con il calore del sonno ancora sulla pelle, non mi soffermavo mai a vedere le poche persone che incrociavo,nè gli edifici cui passavo vicino. La mattina del sogno decisi di fare una passeggiata per il paese.
Dalla stazione, tra i palazzi bassi che davano sul corso, l'unica via che attraversava da parte a parte il quartiere.
Il colore dominante era senza dubbio il giallo: giallo se guardavi in alto il cielo attraverso i rami secchi,giallo se guardavi in basso, concentrandoti sugli stivali che calpestavano le foglie,apparendo e scomparendo ritmicamente. Percepivo il sole che doveva essere molto forte, eppure in fondo la luce sembrava stentare un pò: il cielo era luminosissimo, il sole invece non riuscivo a capire dove fosse, sentivo la presenza, lo vedevo nella luce giallognola che invadeva tutto,ma guardando in alto, tra i palazzi, non riuscivo a vederlo.
Osservavo intorno e, anche casualmente, finivo sempre per notare qualche elemento giallo e pensavo che tutto si intonava perfettamente al mio cappotto e ai miei stivali, alterati anche loro da quella strana luce senza fonte.
Ricordo che più passeggiavo più sentivo la necessità di alzare le braccia in alto e far capire che ero felice. Una sorta di onda, di balzo in avanti fatto di possibilità e curiosità. Non capivo da dove venisse,di cosa si trattasse,ma più volte pensai che forse dovevo tenerle giù quelle braccia,non alzarle,non muoverle,chiudere a pugno le mani nella tasche e guardare solo la punta dei miei stivali,come facevo le mattine ordinarie.
Oscillavo e non riuscivo a decidere cosa farne di queste braccia. Era davvero poi importante sapere da dove arrivasse quella luce particolare, dove fosse il sole?
Colta alla sprovvista rimasi in bilico tra un giallo e un desiderio che non sapevo come fare a tenere vicino.
domenica, febbraio 11, 2007
E' COME SE IN TRENT'ANNI NON AVESSI VISSUTO,VA'
E' come se sti trent'anni non avessi vissuto và.
Irene al caffè passava da poco tempo e faceva parte di quelle ragazze alle quali non avresti saputo dare un'età:era piccola e magrissima, i capelli molto scuri, due ciocche ai lati si staccavano dal resto a causa del suo continuo arricciarle. Cosa che scoprii solo in seguito, quando la sua frequentazione divenne quasi quotidiana. Lavorava presso un'agenzia di assicurazioni lì vicino e si era trasferita da poco in città.
E' come se sti trent'anni non avessi vissuto,và.
Per pronunciare queste parole impiegò una frazione di secondo,giusto il tempo di aprire la bustina di zucchero e girare il cucchiaino nel caffè. Un gesto che fece in modo così naturale da far credere che si ripetesse molte volte nell'arco delle sue giornate. Come se niente fosse si voltò verso i quadri attaccati alle pareti, osservandoli con un'espressione che non capii lì per lì, immaginai non le piacessero particolarmente. Quando in seguito, per strane coincidenze, la conobbi molto bene capii che quando spalancava gli occhi scuri ed inclinava la testa da una parte, significava per lei ricordare qualcosa cui in passato aveva rinunciato.
Allora però non sapevo che ci saremmo ritrovate a condividere lo stesso appartamento e che quel viso sarebbe stato presto decifrabile in ogni sua impercettibile espressione. Tantomeno immaginavo che il caffè sarebbe stato un momento condiviso con lei tutte la mattine, in cucina, prima di qualsiasi altra cosa, prima che la giornata cominciasse, prima di qualunque altro contatto con le persone: un primo momento disemi-coscienza quando, abbandonato da poco il letto, il sonno, le immagini notturne sono ancora presenti e ti impediscono di concentrarti
su quello che hai attorno. Un momento in cui non focalizzi nulla, in cui non riusciresti a far altro che gesti automatici e distratti, in rigoroso silenzio.
Come fare il caffè. Come ascoltare seduta in cucina il rumore che produce la macchinetta, come una piccola barca che entra in porto a motore spento.
Irene era entrata in silenzio, con la sua piccola imbarcazione spenta, che lasciava intravedere un motore ancora rigurgitante, con addosso suoni e rumori di vecchie traversate in mare mosso e ventoso. Non me ne accorsi, ma ancora prima di trovarci a vivere insieme, quando ci incontravamo solo al caffè, i nostri incontri avevano già acquistato quel carattere tenue, silenzioso, delicato che avrebbero caratterizzato tutte le nostre mattine: nessuna sentiva di dover parlare per forza, potevamo restare lei al tavolo, io al bancone chiuse nello sforzo di afferrare le immagini notturne che fino a poche ore prima avevano riemito la nostra testa e la nostra pancia. Nessuna delle due aveva mai sentito l'esigenza di parlare all'altra a causa di imbarazzo, disagio, senso di colpa. Eravamo entrambe presenti e questo ci dava la tranquillità di non doverlo per forza rendere esplicito.
Allora trovai molto piacevole questa situazione, anche perchè tornata da Milano, affrontavo giorni confusi e pensierosi. Ero tornata al caffè in una sorta di trance, in modo automatico, come ci si può buttare a letto una sera che si è bevuto e si è fatto molto tardi: ci si infila sotto le coperte senza percepire chiaramente la consistenza, nè della stoffa, nè del proprio corpo.
Quelle giornate mi sentivo così. Niente di strano quindi se quando lei se ne uscì con quella frase non avvertii nessuna scossa particolare, se non uno strano formicolio sulla pelle che negli anni avevo imparato suggerirmi: guarda con più attenzione.
Difatto,lo feci. Dopo molti caffè.
Irene al caffè passava da poco tempo e faceva parte di quelle ragazze alle quali non avresti saputo dare un'età:era piccola e magrissima, i capelli molto scuri, due ciocche ai lati si staccavano dal resto a causa del suo continuo arricciarle. Cosa che scoprii solo in seguito, quando la sua frequentazione divenne quasi quotidiana. Lavorava presso un'agenzia di assicurazioni lì vicino e si era trasferita da poco in città.
E' come se sti trent'anni non avessi vissuto,và.
Per pronunciare queste parole impiegò una frazione di secondo,giusto il tempo di aprire la bustina di zucchero e girare il cucchiaino nel caffè. Un gesto che fece in modo così naturale da far credere che si ripetesse molte volte nell'arco delle sue giornate. Come se niente fosse si voltò verso i quadri attaccati alle pareti, osservandoli con un'espressione che non capii lì per lì, immaginai non le piacessero particolarmente. Quando in seguito, per strane coincidenze, la conobbi molto bene capii che quando spalancava gli occhi scuri ed inclinava la testa da una parte, significava per lei ricordare qualcosa cui in passato aveva rinunciato.
Allora però non sapevo che ci saremmo ritrovate a condividere lo stesso appartamento e che quel viso sarebbe stato presto decifrabile in ogni sua impercettibile espressione. Tantomeno immaginavo che il caffè sarebbe stato un momento condiviso con lei tutte la mattine, in cucina, prima di qualsiasi altra cosa, prima che la giornata cominciasse, prima di qualunque altro contatto con le persone: un primo momento disemi-coscienza quando, abbandonato da poco il letto, il sonno, le immagini notturne sono ancora presenti e ti impediscono di concentrarti
su quello che hai attorno. Un momento in cui non focalizzi nulla, in cui non riusciresti a far altro che gesti automatici e distratti, in rigoroso silenzio.
Come fare il caffè. Come ascoltare seduta in cucina il rumore che produce la macchinetta, come una piccola barca che entra in porto a motore spento.
Irene era entrata in silenzio, con la sua piccola imbarcazione spenta, che lasciava intravedere un motore ancora rigurgitante, con addosso suoni e rumori di vecchie traversate in mare mosso e ventoso. Non me ne accorsi, ma ancora prima di trovarci a vivere insieme, quando ci incontravamo solo al caffè, i nostri incontri avevano già acquistato quel carattere tenue, silenzioso, delicato che avrebbero caratterizzato tutte le nostre mattine: nessuna sentiva di dover parlare per forza, potevamo restare lei al tavolo, io al bancone chiuse nello sforzo di afferrare le immagini notturne che fino a poche ore prima avevano riemito la nostra testa e la nostra pancia. Nessuna delle due aveva mai sentito l'esigenza di parlare all'altra a causa di imbarazzo, disagio, senso di colpa. Eravamo entrambe presenti e questo ci dava la tranquillità di non doverlo per forza rendere esplicito.
Allora trovai molto piacevole questa situazione, anche perchè tornata da Milano, affrontavo giorni confusi e pensierosi. Ero tornata al caffè in una sorta di trance, in modo automatico, come ci si può buttare a letto una sera che si è bevuto e si è fatto molto tardi: ci si infila sotto le coperte senza percepire chiaramente la consistenza, nè della stoffa, nè del proprio corpo.
Quelle giornate mi sentivo così. Niente di strano quindi se quando lei se ne uscì con quella frase non avvertii nessuna scossa particolare, se non uno strano formicolio sulla pelle che negli anni avevo imparato suggerirmi: guarda con più attenzione.
Difatto,lo feci. Dopo molti caffè.
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